L’arte nella sua catastrofe
La cultura è diventata un dizionario del merchandising
Se guardiamo bene, nella maggiore parte dei casi l’arte oggi si è trasformata dalla necessità di vendersi come prodotto. Non è che non dica nulla—anzi, dice esattamente questo. È lo specchio del tempo in cui viviamo: deve essere gradevole, visivamente accettabile, così da potersi adattare a uno spazio abitabile, altrettanto accettabile. È tutto molto coordinato, molto “presentabile”, pensato più che creato. Basta farsi un giro a una delle molteplici fiere dell’arte: lì sono più in mostra i galleristi e i critici delle opere. Tutti a recitare un ruolo importante, spesso più dell’arte stessa.

Stiamo vivendo una catastrofe della comunicazione globalizzata. Tutti devono vendere qualcosa, anche le idee, che vengono confezionate sotto forma di indottrinamento. Televisione, giornali, Social Media: ormai è chiaro che la maggior parte degli interlocutori è compromessa. Non nel senso criminale, ma nel senso che ognuno è votato a una causa e si riserva, con estrema precisione, di evitare certi argomenti—proprio quelli che invece andrebbero detti, chiari e senza giri di parole.
A partire da una certa rappresentanza del potere, non si riesce nemmeno più a spiegare l’indifferenza verso Gaza. Anzi, sembra quasi che Gaza sia diventata una lezione, un modello per chi vuole agire nell’impunità totale. Quanto può valere oggi una manifestazione di protesta? A volte viene da pensare che i giochi siano già stati fatti, che tutto si muova a un livello di inaccessibile potere internazionale. La sensazione mediatica è quella di una grande impotenza. Qualunque cosa uno possa dire o fare, non cambia nulla. È come se nessuno potesse più fermare il delirio dei potenti. E come si è visto, non avrebbero alcuna difficoltà a cancellare intere popolazioni. È questo il paradosso: viviamo nelle cosiddette grandi democrazie occidentali, eppure sembriamo del tutto incapaci di fermare questi meccanismi.
Alcuni artisti hanno provato a rompere questo silenzio. Penso a Banksy, che nel 2015 ha realizzato una serie di opere direttamente sui muri distrutti di Gaza, tra cui una rappresentazione del “Pensatore” di Rodin, seduto tra le macerie. Non è arte da collezionare: è comunque stata venduta per soli 160 euro, entrando anche essa in un circuito di appropriazione. Oppure Emily Jacir, artista palestinese che ha dedicato gran parte del suo lavoro alla memoria culturale e all’occupazione, usando la propria arte come forma di resistenza.
Un’opera ispirata al Pensatore di Rodin, graffito di Banksy tra ciò che resta di Gaza. →

Queste opere non girano nelle grandi fiere né vengono spese in milioni, ma sono espressioni di un’urgenza vera, che si oppone alla spettacolarizzazione dell’orrore. In un mondo dove “dire troppo” ti taglia fuori, chi fa arte senza filtri paga un prezzo altissimo. Ed è proprio in questo scarto—tra chi si espone e chi resta funzionale al sistema—che si misura oggi il valore autentico di un gesto artistico.
A volte è il caso stesso, o meglio il contesto urbano, a suggerire un’immagine. Come questa scrostatura su un muro della metropolitana, che qualcuno ha completato scrivendo a mano “Free Palestine”. Non pretende di essere arte, è semplicemente un gesto. Non c’è appropriazione, solo un’espressione diretta. Il significato più eloquente è quello di testimonianza. L’ho fotografata non per possederla, ma per ricordare come anche una superficie consumata possa diventare spazio per un frammento che racconta questo tempo.
← Metropolitana di Milano, foto di Ricardo Francone
Questa mancanza d’autenticità, lo si vede, lo si sente ogni giorno. È diventato quasi un dizionario del merchandising. Basta ascoltare gli opinionisti, quasi sempre figure autorevoli, ingaggiate dai media per ripetere concetti che spesso non sono altro che il loro stipendio travestito da opinione. Devono restare visibili, attuali, restare nel giro. Per farlo, devono dire poco—e quel poco, magari, contraddirlo la settimana dopo, nella puntata successiva. È un metodo ormai accettato ovunque, perfino nei telegiornali, che teoricamente dovrebbero essere uno degli ultimi luoghi di comunicazione limpida.
E l’esplosione finale la vediamo ogni giorno sui social: gli influencer. Nuovi protagonisti assoluti, disposti a vendere qualsiasi cosa, pur di restare in scena. L’arte non è rimasta fuori da tutto questo. Anzi, è diventata parte attiva di questo meccanismo. Si è inserita perfettamente nel sistema, adattandosi alla logica della visibilità, del contenuto rapido, della presenza costante. Anche l’opera d’arte oggi, spesso, è solo un contenuto tra gli altri. E come tutto il resto, deve vendersi bene.
Questo però non significa che non esista ancora un’arte che parla in profondità. Solo che se il metro di giudizio è il mercato, allora è come dire “non c’è più sordo di chi non vuol sentire”. E questo vale anche per chi non vuol vedere. La storia ci ha donato grandi interlocutori da seguire, punti di riferimento. I periodi passano, ma qualcosa resta sempre. Ci sono delle verità che resistono. Tipo il fatto che l’arte, quella vera, nasce da una necessità. Non da un’idea o da una moda. Da una spinta reale.
L’Arte Povera, per esempio, non nasce per essere “bella”, né per fare da cornice puramente estetica. Nasce da un’urgenza. Il design, da parte sua, ha saputo evolversi unendo forma, stile e utilità. Ha risposto a bisogni reali, concreti. L’arte contemporanea invece spesso si chiude in sé stessa, in concetti puramente astratti, e sarebbe già qualcosa. Le avanguardie, lo abbiamo capito, sono necessarie, servono a rompere schemi, ma oggi sembrano solo moltiplicare oggetti che non servono a nulla. Se non ad auto celebrare un’arte nella quale fai fatica a trovarle un concetto.
E allora la domanda è:
quando l’arte smette di rispondere a un bisogno vero, cosa diventa?
“Comedian”, l’opera firmata da Maurizio Cattelan
Possiamo comprendere ampiamente la risposta di Cattelan. Ma lasciando la sfera dei grandi autori, quello che intendo, non è solo una sensazione personale: l’arte si sta muovendo dentro logiche precise, in cui la visibilità, il valore economico e il ruolo del critico spesso prevalgono sull’opera in sé. Lo si vede chiaramente nei raduni fieristici, in eventi come Art Basel, dove il mercato dell’arte è protagonista indiscusso, e galleristi e critici si impongono con un’importanza tale da oscurare le opere stesse. Questa centralità del contesto, più che del contenuto, è già stata messa a fuoco nel primo dopo guerra da Theodor W. Adorno, quando scriveva che “l’industria culturale non si limita a riprodurre l’individuo come è, ma lo produce come deve essere”. Qui l’arte smette di interrogare, e inizia a conformare. È un’estetica addomesticata, modellata sui gusti dominanti e sull’economia del consenso.
Come dice Roberto Gramiccia, in un dialogo con Davide Dal Sasso del 2013 per Artribune.com. Riflettendo sullo stato dell’arte contemporanea, parla apertamente di “dittatura della forma merce” come conseguenza di un “monoteismo del mercato”. La sua è una critica che parte dall’osservazione diretta delle dinamiche espositive e della produzione artistica degli ultimi decenni, dove troppo spesso le opere diventano simboli vuoti, oggetti puramente espositivi, non da comprendere.