Il fotografo come monaco dello sguardo:
una riflessione sulla genesi dell’immagine
Nella totale libertà del mio pensiero, ho voluto immaginare il fotografo come una sorta di monaco dello sguardo, un custode della contemplazione visiva. Non è solo un artigiano che cattura gli istanti, ma è immerso in un’esperienza di profonda osservazione del reale. Come il monaco dedica la propria vita alla ricerca dell’assoluto, il fotografo si dedica alla ricerca della luce e della verità nascosta nelle cose.
La metafora del “monaco dello sguardo” non è casuale. Il monaco si ritira dal frastuono del mondo per immergersi nel silenzio e nella meditazione. Allo stesso modo, il fotografo si isola nel suo atto di osservazione, separandosi dal ritmo frenetico del quotidiano. Attraverso la lente, egli sospende il tempo, rallenta il flusso degli eventi e li interroga con pazienza. Ogni scatto è frutto di un’attesa, di una sospensione del giudizio, di una scelta consapevole e calibrata. Non è mai un gesto impulsivo, ma il culmine di una comprensione più ampia della scena: la cattura di quell’infinito che è suggerito nelle lenti fotografiche.
La “genesi” dell’immagine, come termine, evoca l’idea della creazione dal nulla, un atto primordiale e quasi sacro. La fotografia, però, non è una creazione dal nulla. L’immagine è già lì, nel mondo, latente e nascosta tra le pieghe del reale. Il fotografo non inventa, ma rivela (fa vedere). Come un monaco trascrive il divino nei suoi manoscritti, il fotografo trascrive la luce in forma d’immagine. Attraverso il gesto fotografico, ciò che era invisibile diventa visibile, ciò che era fugace diventa eterno.
La genesi dell’immagine richiede pazienza, concentrazione e silenzio interiore. Spesso il fotografo è solo con il suo strumento, in attesa di “quel” momento. Ma questa attesa non è vuota: è densa di osservazione e ascolto. Egli deve saper cogliere l’attimo in cui la luce ridisegna un volto o in cui l’ombra contrasta una forma semi-nascosta. Per il fotografo, la sua “ascesi” quotidiana non è, come per il monaco, il distacco, ma il suo abbraccio più totale alla realtà.
Nessun atto dello sguardo può ignorare il ruolo della luce, tanto meno il fotografo. La luce è la fonte di ogni simbolo di conoscenza. È solo con la luce che il visibile prende forma. Questo principio vale tanto per il mondo fisico quanto per il mondo interiore. La luce diventa, dunque, una metafora della verità: il fotografo la insegue, la cattura, la dona, in modo che ogni variazione di intensità o direzione possa trasformare completamente la sua visione del mondo.
Il fotografo è sempre alla ricerca di questa instabile presenza, un dialogo continuo con l’invisibile, un’attività di rivelazione perpetua. È qui che il parallelismo con il monaco si fa più profondo: se il monaco è in cerca della luce interiore, il fotografo è in attesa della luce che a lui va incontro, rivelando ciò che altrimenti resterebbe nascosto.
Essere “monaco dello sguardo” significa esercitare una disciplina dello sguardo. Non basta vedere: bisogna guardare davvero. La vista è automatica, il guardare è intenzionale. Per il fotografo, questo significa affinare la capacità di discernimento, imparare a scorgere ciò che altri non vedono, non perché siano ciechi, ma perché privi di attenzione. In un mondo inondato di immagini, la sua missione è diversa: non produce altre immagini, ma generare “buon senso”.
Ogni scatto può essere una rivelazione. Il fotografo, come il monaco, non si accontenta della superficie. Egli scava, indaga, esplora. La sua macchina fotografica è uno strumento di ricerca esistenziale. Non cerca l’immagine “bella” o un prodotto da vendere, ma quella vera, quella capace di mostrare il “non visto”. Il suo sguardo non si ferma alle apparenze, ma le attraversa. Le sue immagini non documentano solo ciò che è accaduto; non è soltanto la rappresentazione di uno scenario, ma un interrogativo rivolto allo spettatore su ciò che rappresenta quello scenario.
Così come il monaco non si limita a ripetere le scritture, ma le vive, il fotografo non si limita a “catturare” la realtà, ma la trasforma in un’esperienza di conoscenza. La pratica del fotografo richiede solitudine, disciplina e ricerca della verità. La sua missione è rivelare il mondo attraverso la luce, trascriverne la realtà di un oggetto in forma visibile. Ogni scatto è un atto di contemplazione e creazione, ogni immagine è frutto di una rivelazione.
Come il monaco, anche il fotografo sa che il suo lavoro è profondamente legato alla messa a fuoco dell’infinito, che è dentro quella luce da inseguire. E in questa ricerca infinita, egli sa di poter trovare il significato più profondo del proprio vedere; se non fosse così, ciò che è davanti a sé, giorno dopo giorno, sarebbe la ripetizione costante della stessa identica immagine.